Le opere fortificate moderne


Dall'origine alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Subito dopo la prima guerra mondiale, in tutte le nazioni coinvolte, molta enfasi venne data alle fortificazioni e alle opere fisse di difesa, dislocate lungo i confini dello stato. La Francia realizzò la linea Maginot, passata alla storia come la più grande opera fortificata mai costruita, la Germania realizzò la linea Sigfrido, più spartana della linea francese, ma realizzata nel contesto offensivo della Germania. In Italia fu approntato il Vallo Alpino.
I lavori iniziarono nel 1931 e continuarono per diversi anni, proseguendo in alcuni casi, anche durante il conflitto. Il progetto comprendeva un grande semicerchio, che copriva con vari tipi di opere, l’arco alpino, partendo da Ventimiglia e arrivando a Fiume. La parte relativa al confine Svizzero non venne interessata dai lavori, poiché esistevano ancora delle opere risalenti alla prima guerra mondiale.
La struttura del Vallo Alpino era articolata su tre zone. La “Zona di Sicurezza”, costituita dalla prima linea di fortificazioni, composta da capisaldi, con la funzione di prevenire azioni di sorpresa e mantenere posizioni strategiche.

La “Zona di Resistenza”, arretrata rispetto alla prima linea, munita di grosse opere, in grado di resistere isolate per diverso tempo. Questo tipo di strutture erano provviste di locali e servizi sotterranei e numerose postazioni in casamatta. Lungo le principali vie d’accesso di queste zone, erano stati costruiti ostacoli anticarro fissi e passivi, per ritardare l’avanzata, facilitare il tiro delle artiglierie in fortezza e incanalare eventuali attacchi.
La “Zona di schieramento” era infine la zone in cui si dovevano raccogliere le truppe al momento della mobilitazione.
A seconda della zona da difendere e dell’entità della offesa prevista, vennero realizzate essenzialmente tre tipi di strutture. Le più grandi, denominate tipo A, erano opere di grandi dimensioni, ricavate nella roccia e/o indurite con l’impiego di minimo tre metri di calcestruzzo, e comprendevano solitamente cinque postazioni dette malloppi, collegate da apposite gallerie, che collegavano anche tutti i locali di servizio, tutti sotterranei. Le opere erano comunque spartane e non erano provviste di montacarichi per le munizioni, anche se realizzate spesso su più livelli. Per assicurare una capacità di resistenza alle armi chimiche, vennero integrate nella struttura, doppie porte stagne. Le opere erano anche provviste di osservatori per la direzione del tiro, protetti da cupole metalliche o feritoie scudate. Dato l’alto costo di questo tipo di opera, non vennero realizzate in gran numero.
Le opere di tipo B erano composte da meno postazioni, ma con la stessa protezione delle opere di tipo A. La guarnigione era ridotta e gli allestimenti interni ancora più essenziali. Questo tipo di struttura era abbastanza diffusa.
Le opere di tipo C erano molto più semplici e comprendevano due postazioni per mitragliatrice o una postazione controcarro. La protezione era assicurata normalmente da circa due metri e mezzo di calcestruzzo. Le opere di questo tipo erano le più diffuse.
In tutte le opere venne limitato l’uso di strutture metalliche, e solo le porte e alcune corazzature per le feritoie vennero realizzate in acciaio.
Le opere presidiate in maniera permanente, ospitavano guarnigioni di Guardia alla Frontiera, un corpo specificatamente creato per il presidio delle opere fortificate.
Al contrario della linea francese e sul modello di quella tedesca, il Vallo Alpino ospitava normalmente armi di uso comune nella fanteria e nell’artiglieria del periodo, affiancate da lanciafiamme e mortai in postazione fissa o mobile, e da pezzi d’artiglieria già presenti in alcune opere risalenti alla prima guerra mondiale. In alcune vallate erano previsti dispositivi per l’emissione di gas tossici (Iprite).
Il progetto era notevole e le limitate capacitò industriali ed economiche dell’Italia del tempo, rallentarono il completamento di molte delle opere in progetto.
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, nella parte occidentale del Vallo Alpino, era pressoché ultimata la prima linea e i lavori erano dedicati ad aumentare la profondità della difesa della seconda e della terza linea, conferendo all’opera una profondità variabile tra i venti e i cinquanta chilometri. 460 opere di vario tipo erano efficienti, armate con 1100 mitragliatrici e 133 pezzi di vario calibro. Nel 1938 altrettante armi dovevano essere distribuite per armare le opere in progetto. La Guardia alla Frontiera disponeva di circa 10.000 uomini con 80 mitragliatrici, 240 mortai e novanta batterie di vario calibro (oltre alle armi posizionate nelle opere già citate). Era in progetto la consegna di 300 mitragliatrici, 250 mortai e 90 batterie di vario tipo, anche con grossi calibri.
Nello stesso anno nella parte settentrionale erano in corso di ultimamente nuove vie di accesso alle opere esistenti sul confine italo-svizzero, mentre sul confine con l’Austria si lavorava per aumentare la profondità delle opere periferiche. Nel maggio del 1939 esistevano in questa zona 161 opere con 336 mitragliatrici e 39 pezzi di vario tipo, ultimate o in corso di ultimazione. La Guardia alla frontiera disponeva di 1000 uomini di fanteria con 50 mitragliatrici, 108 mortai e 31 batterie di diverso calibro.
Verso oriente il Vallo era pressoché completo ed efficiente. 208 opere erano state ultimate, 647 mitragliatrici e 50 pezzi erano stati  posizionati, integrati da circa 2000 uomini della Guardia alla Frontiera con 564 mitragliatrici, 114 mortai, 49 batterie e 13 pezzi controcarro.
Solo alcune delle opere occidentali furono coinvolte marginalmente nella azioni contro la Francia del giugno 1940, poichè le operazioni erano di natura offensiva. Solo quattro anni dopo, Italiani e Tedeschi le utilizzarono per frenare l’avanzata delle truppe anglo-americane.
A partire dall’estate del 1948 la maggior parte delle opere occidentali venne distrutta. Si salvarono solo quelle in territorio francese. Per alcuni anni la Francia pensò di riutilizzarle, integrandole con le moderne tecnologie, ma il progetto perse interesse con l’avvento della NATO e vennero abbandonate rimanendo come testimonianza. In Croazia esistono ancora oggi molte opere costruite dagli Italiani. Molte di esse nonostante l’abbandono sono ancora in buono stato. Alcune documenti parlano di un probabile riutilizzo da parte delle forze armate jugoslave durante la guerra fredda, ma non vi è nessuna conferma

Dal Dopoguerra alla fine.

Nel dopoguerra ci si pose il problema di ricostituire la cintura difensiva fortificata. A seguito della cessione di parte del Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia, ben poche opere rimasero in territorio italiano e per di più dovettero essere abbattute in ottemperanza agli accordi di pace. Gli stessi accordi di pace prevedevano una fascia di territorio profonda venti chilometri in cui nessuna nuova installazione militare sarebbe stata costruita e nessuna di quelle esistenti sarebbe stata ampliata.
Grazie anche a contributi NATO e nonostante i pareri discordanti di molti, venne costruita una nuova linea  difensiva. Sul confine con l’Austria vennero riutilizzate opere della seconda guerra mondiale, mentre sul confine con la Jugoslavia, una nuova linea venne costruita. La linea difensiva si estendeva così dal Passo Resia alle sorgenti del Natisone, e in pianura seguiva il corso del Tagliamento fino quasi al mare.
Le opere, di diverse tipologie, erano sostanzialmente di due tipi. Le prime, più grandi e di pronto impiego erano sempre presidiate e rifornite di munizioni. Le seconde erano invece opere più piccole, non presidiate stabilmente, ma ispezionate regolarmente per la manutenzione in attesa di un possibile utilizzo. Tutte erano costituite da opere in caserma, in casamatta o con torrette metalliche, disposte anche su più livelli. L’armamento era spesso costituito da torrette di vecchi carri enucleate. La tecnica di utilizzare torrette enucleate da mezzi dimessi o sostituiti era una esperienza delle linee fortificate costruite in Italia dai tedeschi. La torretta offriva diversi vantaggi dato che consentiva di sviluppare un notevole volume di fuoco su 360° gradi, offrendo un ridotto bersaglio all’attaccante. Nelle opere in montagna come quelle in pianura vennero utilizzate anche cupole metalliche prefabbricate risalenti alla seconda guerra mondiale e recuperate da precedenti installazioni. La riattivazione riguardò per lo piu' opere in calcestruzzo del tipo già citato "B". In Friuli vennero attivate diverse opere in caverna a presidio di importanti vie d'accesso.
Le opere al loro interno erano in grado di ospitare diverse decine di uomini ed erano perciò equipaggiate con i locali di servizio, viveri e acqua per diversi giorni. La difesa NBC era affidata ai soli sistemi individuali. Per sgombrare i locali dal monossido di carbonio sviluppato dal fuoco delle armi, era previsto un sistema di ventole e per la protezione dei serventi, un sistema ad aria forzata da collegarsi ai facciali delle maschere antigas in dotazione. La difesa ravvicinata alle opere, oltre che dalle armi in dotazione era affidata ad apposite squadre di difesa ravvicinata, che in caso di impiego avrebbero dovuto stendere anche campi minati in appositi spazi a difesa delle opere.
Nel campo della mimetizzazione le opere, soprattutto quelle alpine furono un vero capolavoro. Vista la natura stessa delle opere, era indispensabile che la loro posizione fosse di difficile individuazione, poiché non avrebbero potuto reggere a un attacco diretto con armi opportune. Per molti anni su queste opere ci fù il più grande riserbo possibile e anche dopo la dismissione è difficile venire a conoscenza della locazione della maggior parte di queste opere. Le varie postazione erano infatti mimetizzati con efficienti sistemi. Finta roccia e opportuni rimboschimenti coprivano casematte e centri di comando, capanni di legno o metallici o addirittura finti covoni di fieno, mascheravano torrette, cupole metalliche e postazioni di mitragliatrici. Addirittura testimonianze parlano di finte case cantoniere, cabine elettriche e molti altri tipi di strutture. I già citati sistemi per lo sgombero dei fumi, inoltre,  rendevano difficile l’individuazione delle postazioni anche durante il fuoco delle batterie se non da breve distanza.
In caso di utilizzo si sarebbe provveduto a rimuovere le coperture o a disboscare i settori di tiro. Erano stati realizzati anche appositi fornelli da mina in corrispondenza di passi, passaggi importanti o percorsi obbligati, da minare con apposite cariche di tritolo, per interdire il passaggio o rallentare l’avanzata del nemico.
Dalla formazione dei reparti di posizione al 1992 diverse dottrine d’utilizzo vennero adottate. La proliferazione nucleare, la possibilità d’impiego da parte dell’attaccante di ordigni atomici, chimici e biologici rese sempre più inutili le opere fortificate. Lo smembramento dell’Unione Sovietica, la cessazione della minaccia immediata da est, i cambiamenti nei paesi del Patto di Varsavia, diedero il colpo di grazia ai reparti d’arresto e alle postazioni. Tra il 1991 e il 1992 tutte le opere non ancora dismesse vennero chiuse e tutti i reparti sciolti. Non risulta che nessuna delle opere sia stata conservata come testimonianza di quei reparti che vi prestarono servizio. Tutte le opere vennero private dell'armamento e degli allestimenti interni e, nella maggior parte dei casi, chiuse mediante la saldatura degli ingressi e delle feritoie. Rimangono silenziose testimonianze di una parte poco conosciuta della nostra storia.